I - Possiamo essere certi che questi Commentari saranno conosciuti rapidamente da cinquanta o sessanta persone; che non sono poche di questi tempi, e trattando di questioni così gravi. Ma è anche perché in certi ambienti ho fama di essere un intenditore. Bisogna inoltre considerare che la metà, o pressappoco, dell’elite che si interesserà al libro è composta da persone la cui occupazione è il mantenimento del sistema di dominio spettacolare, e l’altra metà da persone che si ostineranno a fare tutto l’opposto. Dovendo perciò tener conto di lettori attentissimi e diversamente influenti, non posso ovviamente parlare in tutta libertà. Soprattutto devo stare attento a non istruire troppo chiunque. La gravita dei tempi attuali mi costringerà quindi a scrivere, ancora una volta, in maniera nuova. Certi elementi saranno volutamente omessi; e il piano dovrà rimanere abbastanza oscuro. Si potrà incontrare, come impronta tangibile dell’epoca, qualche tranello. A condizione di intercalare qua e là numerose altre pagine, il senso totale può risultare chiaro: così, assai spesso, articoli segreti sono stati aggiunti a quanto certi trattati precisavano apertamente, e allo stesso modo succede che degli agenti chimici rivelino una parte sconosciuta delle loro proprietà solo quando si trovano associati ad altri. Del resto, in questo breve lavoro ci saranno anche troppe cose che risulteranno, ahimè, di troppo facile comprensione.
IV - Sul piano puramente teorico, dovrò aggiungere a quanto avevo formulato in precedenza solo un dettaglio, ma carico di conseguenze. Nel 1967 distinguevo due forme, successive e antagonistiche, del potere spettacolare: quella concentrata e quella diffusa. Entrambe aleggiavano sulla società reale, come suo scopo e sua menzogna. La prima, mettendo in risalto l’ideologia riassunta intorno ad una personalità dittatoriale, aveva accompagnato la controrivoluzione totalitaria, sia nazista che stalinista. L’altra, incitando i salariati ad effettuare liberamente le loro scelte tra una grande varietà di merci nuove in competizione, aveva costituito quell’americanizzazione del mondo che per certi aspetti spaventava, ma soprattutto affascinava i paesi in cui le condizioni delle democrazie borghesi di tipo tradizionale avevano potuto mantenersi più a lungo. Successivamente si è costituita una terza forma, attraverso la combinazione ragionata delle due precedenti, e sulla base generale di una vittoria di quella che si era mostrata più forte, la forma diffusa. Si tratta dello spettacolare integrato, che tende ormai a imporsi su scala mondiale. Il ruolo predominante già svolto dalla Russia e dalla (Germania nella formazione dello spettacolare concentrato, e dagli Stati Uniti in quella dello spettacolare diffuso, pare spettare alla Francia e all’Italia al momento dell’introduzione dello spettacolare integrato, attraverso il gioco di una serie di fattori storici comuni: ruolo importante del partito e del sindacato stalinista nella vita politica e intellettuale, scarsa tradizione democratica, lunga monopolizzazione del potere da parte di un unico partito di governo, necessità di finirla con una contestazione rivoluzionaria apparsa di sorpresa. Lo spettacolare integrato si manifesta al tempo stesso come concentrato e come diffuso, e dall’inizio di questa fruttuosa unificazione ha saputo sfruttare maggiormente entrambe le qualità. Le loro precedenti modalità di applicazione sono molto cambiate. Per quanto riguarda l’aspetto concentrato, il suo centro direttivo è ormai diventato occulto: non è più occupato da un capo conosciuto né da un’ideologia precisa. Per quanto riguarda l’aspetto diffuso, l’influenza spettacolare non aveva mai contrassegnato fino a questo punto la quasi totalità dei comportamenti e degli oggetti prodotti socialmente. Perché in definitiva il senso dello spettacolare integrato è che si è integrato nella realtà stessa man mano che ne parlava; e che la ricostruiva come ne parlava. Così adesso questa realtà non gli sta più di fronte come qualcosa di estraneo. Quando lo spettacolare era concentrato gli sfuggiva la maggior parte della società periferica; quando era diffuso, una piccola parte; oggi, niente. Lo spettacolo si è mischiato a ogni realtà, irradiandola. Come era facilmente prevedibile sul piano teorico, l’esperienza pratica della realizzazione sfrenata delle volontà della ragione mercantile avrà dimostrato rapidamente e senza eccezioni che il divenir mondo della falsificazione era anche un divenir-falsificazione del mondo. Eccetto un patrimonio ancora cospicuo, ma destinato a ridursi sempre di più, di libri e di edifici antichi, peraltro selezionati e disposti in prospettiva sempre più spesso secondo le preferenze dello spettacolo, non esiste più nulla, nella cultura e nella natura, che non sia stato trasformato, e inquinato, secondo le capacità e gli interessi dell’industria moderna. La genetica stessa è diventata pienamente accessibile alle forze dominanti della società. Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna da solo ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie. In tali condizioni possiamo vedere scatenarsi all’improvviso, con un tripudio carnevalesco, una fine parodistica della divisione del lavoro; tanto più tempestiva in quanto coincide col movimento generale di scomparsa di ogni autentica competenza. Un finanziere canta, un avvocato diventa informatore della polizia, un fornaio espone le sue preferenze letterarie, un attore governa, un cuoco disserta sui tempi di cottura come momenti essenziali della storia universale. Ognuno può apparire improvvisamente nello spettacolo per darsi pubblicamente, o a volte perché ci si è dedicato di nascosto, a un’attività completamente diversa dalla specialità grazie alla quale si era fatto conoscere finora. Dato che il possesso di uno «statuto mediale» ha assunto un’importanza infinitamente maggiore del valore di ciò che si è stati effettivamente capaci di fare, è normale che tale statuto sia facilmente trasferibile, e conferisca il diritto di brillare allo stesso modo in qualsiasi altro ruolo. Il più delle volte queste particelle mediali accelerate proseguono la loro semplice carriera nell’ammirabile garantito statutariamente. Ma avviene che la transizione dei mass media faccia da copertura tra molte imprese, ufficialmente indipendenti ma di fatto collegate segretamente grazie a varie reti ad hoc. Tanto che, a volte, la divisione sociale del lavoro e la solidarietà comunemente prevedibile del suo uso riappaiono sotto forme totalmente nuove: per esempio, è ormai possibile pubblicare un romanzo per preparare un assassinio. Questi esempi pittoreschi significano anche che non possiamo più fidarci di nessuno in rapporto al suo mestiere. Ma la massima ambizione dello spettacolare integrato è pur sempre che gli agenti segreti diventino dei rivoluzionari, e che i rivoluzionari diventino degli agenti segreti. VI - L’intenzione originaria del dominio spettacolare era far sparire la conoscenza storica in generale; e in primo luogo quasi tutte le informazioni e tutti i commenti ragionevoli sul passato più recente. Un’evidenza così flagrante non ha bisogno di essere spiegata. Lo spettacolo organizza magistralmente l’ignoranza di ciò che succede e, subito dopo, l’oblio di ciò che siamo riusciti ugualmente a sapere. La cosa più importante è la più nascosta. Da vent’anni a questa parte niente è stato sommerso da tante bugie imposte quanto la storia del maggio 1968. Tuttavia sono state tratte lezioni utili da alcuni studi privi di mistificazioni su quelle giornate e sulle loro origini; ma questo è segreto di Stato. In Francia, già dieci anni fa, un presidente della Repubblica ormai dimenticato ma che allora galleggiava sulla superficie dello spettacolo esprimeva ingenuamente la gioia che provava «sapendo che vivremo ormai in un mondo senza memoria, in cui, come sulla superficie dell’acqua, l’immagine scaccia indefinitamente l’immagine». In effetti è comodo per chi è negli affari, e sa restarci. La fine della storia è un piacevole riposo per ogni potere attuale. Gli garantisce assolutamente il successo dell’insieme delle sue imprese, o almeno la notizia del successo. Un potere assoluto sopprime tanto più radicalmente la storia quanto più sono imperiosi gli interessi od obblighi che ha per farlo, e in particolare nella misura in cui le agevolazioni pratiche di esecuzione che ha trovato sono più o meno grandi. Ts’in Che Hoang Ti ha fatto bruciare i libri, ma non è riuscito a farli sparire tutti. Stalin nel nostro secolo aveva spinto oltre la realizzazione di tale progetto ma, nonostante le complicità di ogni sorta che ha potuto trovare al di fuori delle frontiere del suo impero, restava una vasta zona del mondo inaccessibile alla sua polizia, in cui si rideva delle sue imposture. Lo spettacolare integrato ha fatto di meglio, con procedimenti nuovissimi e operando stavolta su scala mondiale. Non è più permesso ridere dell’inettitudine che si fa rispettare ovunque, o comunque è diventato impossibile far sapere che se ne ride. Il campo della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. Inseparabilmente, la conoscenza avrebbe dovuto durare, e aiutare a comprendere almeno in parte ciò che sarebbe successo di nuovo: «un’acquisizione per sempre», dice Tucidide. In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità; e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla. Quando l’importante si fa riconoscere socialmente come ciò che è istantaneo e lo sarà ancora nell’istante successivo, altro e identico, e che sarà sempre sostituito da un’altra importanza istantanea, possiamo anche dire che il metodo usato garantisce una sorta di eternità di questa non-importanza, che parla così forte. Il vantaggio prezioso che lo spettacolo ha ricavato da questa messa al bando della storia, dal fatto di aver già condannato tutta la storia recente a passare alla clandestinità e di essere riuscito a far dimenticare in misura molto ampia lo spirito storico all’interno della società, è innanzitutto l’occultamento della propria storia: il movimento stesso della sua recente conquista del mondo. Il suo potere appare già familiare come se fosse esistito da sempre. Tutti gli usurpatori hanno voluto far dimenticare che sono appena arrivati. VIII – Quando la società che si dichiara democratica è giunta allo stadio dello spettacolare integrato, pare essere riconosciuta ovunque come la realizzazione di una perfezione fragile. Di modo che, essendo fragile, non deve più essere esposta ad attacchi; del resto non è più attaccabile, perché perfetta come nessun’altra mai. È una società fragile perché stenta molto a controllare la sua pericolosa espansione tecnologica. Ma è una società perfetta da governare; prova ne è che tutti quelli che aspirano a governare vogliono governare proprio quella, con gli stessi metodi, e mantenerla quasi esattamente com’è. È la prima volta nell’Europa contemporanea che nessun partito o frammento di partito tenta più anche solo di affermare che cercherà di cambiare qualcosa di importante. La mercè non può più essere criticata da nessuno: né in quanto sistema generale, né come una determinata paccottiglia che ai dirigenti d’azienda è convenuto mettere momentaneamente sul mercato. Dovunque regni lo spettacolo, le uniche forze organizzate sono quelle che vogliono lo spettacolo. Perciò nessuna può essere nemica di ciò che esiste, né trasgredire l’omertà che investe tutto. Ci siamo sbarazzati dell’inquietante concezione, che aveva prevalso per più di duecento anni, secondo la quale una società poteva essere criticabile e trasformabile, riformata o rivoluzionata. E ciò non è stato raggiunto grazie alla comparsa di argomenti nuovi, ma semplicemente perché gli argomenti sono diventati inutili. In base a tale risultato potremo misurare, piuttosto che la felicità generale, la forza temibile delle reti della tirannia. Mai censura è stata più perfetta. Mai l’opinione di quelli cui si fa ancora credere, in certi paesi, che sono rimasti cittadini liberi, è stata meno autorizzata a manifestarsi, ogni volta che si tratta di una scelta che coinvolgerà la loro vita reale. Mai è stato permesso di mentire loro con un’incoerenza tanto perfetta. Si presume semplicemente che lo spettatore ignori tutto e non meriti nulla. Chi non fa che guardare per sapere il seguito, non agirà mai: proprio così dev’essere lo spettatore. Si sente citare spesso l’eccezione degli Stati Uniti, dove un giorno Nixon aveva finito col risentire di una serie di denegazioni troppo cinicamente maldestre; ma questa eccezione del tutto locale, che aveva qualche vecchia causa storica, non è palesemente più vera, dato che di recente Reagan ha potuto fare la stessa cosa impunemente. Tutto ciò che non è mai punito è in realtà permesso. Perciò è arcaico parlare di scandalo. Si attribuisce a uno statista italiano di prim’ordine, che ha fatto parte contemporaneamente del governo ufficiale e di quello parallelo detto P2, Potere Due, una battuta che riassume con molta efficacia il periodo in cui, poco tempo dopo l’Italia e gli Stati Uniti, tutto il mondo è entrato: «Ci sono stati degli scandali, ma ora non ce ne sono più». Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx descriveva il ruolo invadente dello Stato nella Francia del secondo impero, che contava all’epoca ben mezzo milione di funzionari: «Così tutto diventò oggetto dell’attività governativa, dal ponte, dalla scuola, dalla proprietà comunale di un villaggio fino alle ferrovie, alle proprietà nazionali e alle università provinciali». La famosa questione del finanziamento dei partiti si poneva già allora, perché Marx osserva che «i partiti che lottavano a turno per la supremazia vedevano nell’appropriazione di quell’enorme edificio la preda principale del vincitore». Ad ogni modo, ciò suona un po’ bucolico e, come si suoi dire, sorpassato, perché le speculazioni statali di oggi riguardano piuttosto le città satelliti e le autostrade, la circolazione sotterranea e la produzione di energia elettronucleare, la ricerca petrolifera e i computer, l’amministrazione delle banche e i centri socioculturali, le modificazioni del «paesaggio audiovisivo» e le esportazioni clandestine di armi, la promozione immobiliare e l’industria farmaceutica, l’agroalimentare e la gestione degli ospedali, i crediti militari e i fondi segreti del dipartimento, in continua crescita, che deve amministrare i numerosi servizi di protezione della società. Tuttavia Marx, il quale accenna nello stesso libro al governo «che non prende di notte delle decisioni che vuole eseguire il giorno dopo, ma decide di giorno ed esegue di notte», è disgraziatamente rimasto troppo a lungo attuale. XIV - Si sente dire che ormai la scienza è subordinata a imperativi di redditività economica; ciò è vero da sempre. Il fatto nuovo è che l’economia abbia comincialo a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza. È stato allora che il pensiero scientifico ha scelto, contro gran parte del proprio passato antischiavista, di servire il dominio spettacolare. Prima di arrivare a questo punto la scienza godeva di una relativa autonomia. Perciò sapeva pensare il suo briciolo di realtà; e in tal modo aveva potuto contribuire immensamente ad aumentare i mezzi dell’economia. Quando l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo, ha soppresso le ultime tracce dell’autonomia scientifica, inscindibilmente sul piano metodologico e su quello delle condizioni pratiche dell’attività dei «ricercatori». Non si chiede più alla scienza di capire il mondo, o di migliorare qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa. Stupido m questo campo come in tutti gli altri, da lui sfruttati con l’irriflessione più nefasta, il dominio spettacolare ha fatto abbattere l’albero gigantesco del sapere scientifico al solo fine di ricavarne un manganello. Per obbedire a questa ultima domanda sociale di una giustificazione manifestamente impossibile, è meglio non saper più pensare troppo, ma essere al contrario abbastanza abituati alle comodità del discorso spettacolare. I infatti è proprio in questa carriera che la scienza prostituita di questi tempi spregevoli ha trovato prontamente la sua più recente specializzazione, con molta buona volontà. La scienza della giustificazione menzognera era apparsa naturalmente fin dai primi sintomi di decadenza della società borghese, con la proliferazione cancerosa delle pseudoscienze dette «umane»; ma, ad esempio, la medicina moderna era riuscita per un certo tempo a spacciarsi per utile, e coloro che avevano sconfitto il vaiolo o la lebbra erano ben diversi da quanti hanno capitolato vigliaccamente di fronte alle radiazioni nucleari o alla chimica agroalimentare. Si fa presto ad osservare che oggi la medicina non ha più il diritto di difendere la salute della popolazione dall’ambiente patogeno, perché ciò significherebbe opporsi allo Stato, o anche soltanto all’industria farmaceutica. Ma non è soltanto per mezzo di ciò che è obbligata a tacere che l’attuale attività scientifica confessa ciò che è diventata. È anche per mezzo di ciò che essa molto spesso ha l’ingenuità di dire. Annunciando nel novembre del 1985 di avere probabilmente scoperto un rimedio efficace contro l’Aids, i professori Even e Andrieu dell’ospedale Laènnec suscitarono due giorni dopo, essendo morti i pazienti, alcune riserve da parte di vari medici, meno avanzati rispetto a loro o forse invidiosi, per il loro modo piuttosto precipitoso di correre a far registrare quella che era solo un’apparenza ingannevole di vittoria solo poche ore prima del crollo. E quelli si difesero senza scomporsi, affermando che «dopo tutto meglio una falsa speranza che nessuna speranza». Erano addirittura troppo ignoranti per riconoscere che questo solo argomento bastava a rinnegare completamente lo spirito scientifico; e che storicamente era sempre servito a mascherare le proficue fantasie dei ciarlatani e degli stregoni, nei tempi in cui non si affidava loro la direzione degli ospedali. Quando la scienza ufficiale arriva al punto di essere diretta in questo modo, come tutto il resto dello spettacolo sociale che sotto una veste materialmente ammodernata e arricchita non ha fatto altro che riprendere le antichissime tecniche dei teatrini ambulanti — illusionisti, imbonitori e protettori —, non possiamo stupirci vedendo la grande autorità che riacquistano parallelamente, un po’ dappertutto, i maghi e le sette, lo zen imballato sotto vuoto o la teologia dei mormoni. L’ignoranza, che ha servito bene le potenze costituite, o stata per di più sempre sfruttata da aziende ingegnose che si tenevano ai margini delle leggi. Quale momento più propizio di quello in cui l’analfabetismo ha fatto tanti progressi? Ma questa realtà è a sua volta negata da un’altra dimostrazione di stregoneria. Al momento della sua fondazione l’Unesco aveva adottato una definizione scientifica, molto precisa, dell’analfabetismo, che si prefiggeva di combattere nei paesi arretrati. > |
Quando si è visto riapparire inopinatamente lo stesso fatto, ma stavolta nei paesi detti avanzati, come qualcun altro che aspettando Grouchy vide spuntare Blucher nella battaglia, è bastato gettare nella mischia le truppe scelte degli esperti; e con un unico assalto irresistibile essi si sono affrettati a eliminare la formula, sostituendo il termine analfabeta con quello di illetterato: così come un «falso patriota» può comparire al momento giusto per sostenere una buona causa nazionale. E per corroborare tra pedagoghi la pertinenza del nuovo termine ci si affretta a far passare rapidamente, come se fosse ammessa da sempre, una nuova definizione, secondo la quale mentre l’analfabeta era come si sa colui che non aveva mai imparato a leggere, l’illetterato in senso moderno è al contrario colui che ha imparato la lettura (e anzi l’ha imparata meglio di prima, come possono freddamente testimoniare seduta stante i teorici e gli storici ufficiali della pedagogia più dotati), ma che casualmente l’ha dimenticata subito. Questa sorprendente spiegazione rischierebbe di essere meno rassicurante che inquietante se non fosse così abile da evitare, sfiorandola come se non la vedesse, la prima conseguenza che sarebbe venuta in niente a ognuno in epoche più scientifiche: ovvero che quest’ultimo fenomeno meriterebbe di essere a sua volta spiegato, e combattuto, perché non aveva mai potuto essere osservato né immaginato da nessuna parte, prima dei recenti progressi del pensiero avariato; quando la decadenza della spiegazione accompagna di pari passo la decadenza della pratica.
XVI - Il concetto, ancora giovane, di disinformazione è stato importato recentemente dalla Russia insieme a molte altre invenzioni utili alla gestione degli Stati moderni. È sempre impiegato nel senso più alto da un potere, o come corollario da persone che detengono un pezzo di autorità economica o politica per mantenere ciò che è istituito; e sempre attribuendo a tale impiego una funzione controffensiva. Ciò che può opporsi a una sola verità ufficiale dev’essere necessariamente una disinformazione proveniente da potenze ostili, o quanto meno da rivali, e deve essere stata intenzionalmente falsata per malanimo. La disinformazione non è la semplice negazione di un fatto che conviene alle autorità, o la semplice affermazione di un fatto loro sgradito: questo si chiama psicosi. Contrariamente alla pura e semplice menzogna la disinformazione, e qui il concetto diventa interessante per i difensori della società dominante, deve fatalmente contenere una certa parte di verità, ma deliberatamente manipolata da un abile nemico. Il potere che parla di disinformazione non si crede assolutamente privo di difetti, ma sa che potrà attribuire ad ogni critica precisa l’eccessiva inconsistenza che è nella natura della disinformazione; e in questo modo non dovrà mai ammettere un difetto particolare. Insomma, la disinformazione sarebbe il cattivo uso della verità. Chi la diffonde è colpevole, e chi le crede, imbecille. Ma chi sarebbe dunque l’abile nemico? In questo caso non può essere il terrorismo, che non rischia di «disinformare» nessuno, perché è incaricato di rappresentare ontologicamente l’errore più bislacco e meno ammissibile. Grazie alla sua etimologia e ai ricordi contemporanei degli scontri limitati che verso la metà del secolo opposero per breve tempo Est e Ovest, spettacolare concentrato e spettacolare diffuso, il capitalismo dello spettacolare integrato fa tuttora finta di credere che il capitalismo burocratico totalitario — presentato addirittura, a volte, come il retroterra o l’ispirazione dei terroristi — resti il suo nemico fondamentale, e il secondo dirà lo stesso del primo, nonostante le innumerevoli prove della loro profonda alleanza e solidarietà. In realtà tutti i poteri insediati, nonostante qualche effettiva rivalità locale, e senza volerlo mai dire, pensano continuamente ciò che aveva ricordato un giorno, da parte sovversiva e senza grande successo immediato, uno dei rari internazionalisti tedeschi dopo l’inizio della guerra del 1914: «II nemico principale è nel nostro paese». In definitiva la disinformazione è l’equivalente di ciò che «le cattive passioni» rappresentavano nel discorso della guerra sociale dell’Ottocento. È tutto ciò che è oscuro e rischierebbe di volersi opporre alla straordinaria felicità di cui questa società, come ben sappiamo, fa beneficiare coloro che le hanno dato fiducia; felicità che non può essere mai troppo pagata con vari rischi o irrilevanti delusioni. E tutti quelli che vedono tale felicità nello spettacolo ammettono che non c’è da lesinare sul prezzo; mentre gli altri disinformano. L’altro vantaggio che si trova nel denunciare, spiegandola in questo modo, una disinformazione assai particolare è che di conseguenza il discorso complessivo dello spettacolo non può essere sospettato di contenerla a sua volta, perché esso può designare, con la sicurezza più scientifica, il terreno dove si riconosce la disinformazione: è tutto ciò che si può dire e che non gli aggrada. Probabilmente è per sbaglio — a meno che non si tratti piuttosto di un inganno deliberato — che di recente in Francia si è ventilato il progetto di attribuire ufficialmente una sorta di marchio a del materiale mediale «garantito senza disinformazione»: ciò offendeva certi professionisti dei mass media, che volevano ancora credere, o più modestamente far credere, di non essere effettivamente censurati già da ora. Ma soprattutto il concetto di disinformazione non deve evidentemente essere usato difensivamente, e ancor meno in una difensiva statica, rinforzando una muraglia cinese, una linea Maginot che dovrebbe coprire completamente uno spazio che si suppone vietato alla disinformazione. Bisogna che ci sia una disinformazione, e che essa resti fluida, capace di passare dappertutto. Sarebbe stupido difendere lo spettacolo là dove non è attaccato; e questo concetto si logorerebbe con un’estrema velocità difendendolo, contro l’evidenza, su punti che devono al contrario evitare di mobilitare l’attenzione. Inoltre, le autorità non hanno alcun autentico bisogno di garantire che un’informazione precisa non contenga disinformazione. E non ne hanno i mezzi: non sono così rispettate, e non farebbero che attirare il sospetto sull’informazione in questione. Il concetto di disinformazione è valido solo nel contrattacco. Bisogna mantenerlo in seconda linea e poi lanciarlo immediatamente in avanti per respingere ogni verità che si presenti. Se talvolta rischia di apparire una sorta di disinformazione disordinata, al servizio di alcuni interessi privati provvisoriamente in conflitto, e di essere a sua volta creduta, diventando incontrollabile e opponendosi in tal modo al lavoro complessivo di una disinformazione meno irresponsabile, non è affatto il caso di temere che nella prima siano impegnati altri manipolatori più esperti o più sottili: è semplicemente perché la disinformazione si dispiega ormai in un mondo in cui non c’è più posto per nessuna verifica. Il concetto confusionista di disinformazione è messo in risalto per confutare istantaneamente, grazie semplicemente al suono del termine, ogni critica che le varie agenzie di organizzazione del silenzio non fossero riuscite a far sparire. Ad esempio, un giorno si potrebbe dire, se ciò fosse utile, che questo scritto è un’impresa di disinformazione sullo spettacolo; oppure di disinformazione ai danni della democrazia, che è lo stesso. Contrariamente a quanto afferma il suo concetto spettacolare opposto, la pratica della disinformazione non può che servire lo Stato qui e ora, sotto la sua guida diretta, o per iniziativa di coloro che difendono gli stessi valori. In realtà la disinformazione risiede in tutta l’informazione esistente; e come suo carattere principale. È nominata soltanto dove occorre mantenere, con l’intimidazione, la passività. Dove la disinformazione è nominata, non esiste. Dove esiste, non la si nomina. Quando esistevano ancora delle ideologie che si scontravano, che si proclamavano a favore o contro un dato aspetto conosciuto della realtà, c’erano fanatici e bugiardi ma non «disinformatori». Quando il rispetto per il consenso spettacolare, o perlomeno una volontà di vanagloria spettacolare non permettono più di dire veramente a che cosa ci si oppone, oppure ciò che si approva con tutte le sue conseguenze, ma ci si trova spesso costretti a dissimulare un aspetto considerato per qualche motivo pericoloso in ciò che si è supposti ammettere, allora si pratica la disinformazione; come per disattenzione, o per dimenticanza, o per cosiddetto falso ragionamento. Ad esempio, sul terreno della contestazione successiva al 1968, i ricuperatori inetti chiamati «pro situ» sono stati i primi disinformatori, perché dissimulavano il più possibile le manifestazioni pratiche attraverso le quali si era affermata la critica che sostenevano di condividere; e, senza farsi scrupolo di indebolire l’enunciato, non citavano mai niente o nessuno, per dare l’impressione di aver trovato qualcos a da se stessi. XXVI - Se vediamo formarsi ovunque reti di influenza o società segrete, è perché ciò è voluto tassativamente dalle nuove condizioni per una gestione proficua degli affari economici, in una situazione in cui lo Stato ha un peso egemone nell’orientamento della produzione, e in cui la domanda di ogni mercè dipende strettamente dalla centralizzazione realizzata dall’informazione-istigazione spettacolare, cui devono adattarsi anche le forme della distribuzione. Si tratta quindi della conseguenza naturale del movimento di concentrazione dei capitali, del la produzione, della distribuzione. In questo campo, ciò che non si espande deve sparire; e nessuna azienda può espandersi se non con i valori, le tecniche, i mezzi di ciò che rappresentano oggi l’industria, lo spettacolo, lo Stato. Si tratta in ultima analisi dello sviluppo particolare scelto dall’economia del nostro tempo, che arriva a imporre ovunque la formazione di nuovi legami personali di dipendenza e di protezione. Proprio in questo punto sta la profonda verità della formula, immediatamente comprensibile in tutta l’Italia, usata dalla mafia siciliana: «Quando si hanno soldi e amici, si ride della Giustizia». Nello spettacolare integrato, le leggi dormono; perché non erano state fatte per le nuove tecniche di produzione, e perché sono stravolte nella distribuzione da intese di nuovo genere. Ciò che il pubblico pensa o preferisce non ha più importanza, viene mascherato dallo spettacolo dei tanti sondaggi elettorali, d’opinione, di ristrutturazioni modernizzanti. Chiunque siano i vincitori, il peggiore verrà acquistato dalla gentile clientela: perché è proprio ciò che è stato prodotto per lei. Si fa un gran parlare di «Stato di diritto» da quando lo Stato moderno detto democratico ha smesso generalmente di esserlo: non è un caso che l’espressione si sia diffusa solo poco dopo il 1970, e in un primo tempo proprio in Italia. In vari campi si fanno addirittura delle leggi precisamente perché siano stravolte da coloro che saranno in grado di farlo. In certe circostanze l’illegalità, ad esempio intorno al commercio mondiale di armamenti d’ogni tipo, e più spesso rispetto a pro dotti della tecnologia più avanzata, è solo una sorta di forza complementare dell’operazione economica: che sarà perciò tanto più redditizia. Oggi molti affari sono necessariamente disonesti come lo è il secolo, e non com’erano un tempo quelli praticati, visibilmente in piccola serie, da chi aveva scelto la strada della disonestà. Con la crescita delle reti di promozione-controllo per diffondere e controllare settori sfruttabili del mercato, cresce anche il numero di servizi personali che non possono essere rifiutati a coloro che sono al corrente e che da parte loro non hanno negato il loro aiuto; e non si tratta sempre solo dei poliziotti o dei custodi degli interessi o della sicurezza dello Stato. Le complicità funzionali comunicano a grande distanza e a lunga durata, perché le loro reti dispongono di tutti i mezzi per imporre i sentimenti di gratitudine o di fedeltà, che pur troppo sono sempre stati così rari nella libera attività dei tempi borghesi. S’impara sempre qualcosa dall’avversario. È accertato che anche gli uomini di Stato sono stati indotti a leggere le osservazioni del giovane Lukàcs sui concetti di legalità e di illegalità, quando hanno dovuto affrontare il passaggio effimero di una nuova generazione del negativo — Omero ha detto che «una generazione di uomini passa con la rapidità di una generazione di fo glie». Da allora gli uomini di Stato hanno potuto smettere come noi di preoccuparsi di qualsiasi tipo di ideologia riguardo a questo problema; le pratiche della società spettacolare infatti non favorivano più nessuna illusione ideologica del genere. In fin dei conti, a proposito di noi tutti, si potrà concludere che ciò che spesso ci ha impedito di limitarci ad una sola attività illegale è il fatto che ne abbiamo avute più d’una. XVII - Invertendo una famosa formula di Hegel notavo già nel 1967 che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso». Gli anni trascorsi da allora hanno dimostrato i progressi di questo principio in ogni campo particolare, senza eccezioni. Così, in un’epoca in cui l’arte contemporanea non può più esistere, diventa difficile giudicare le arti classiche. Qui come altrove, l’ignoranza è prodotta solo per essere sfruttata. Nello stesso momento in cui vanno perduti il senso della storia e il gusto, si organizzano reti di falsificazione. È sufficiente disporre di esperti e di banditori, cosa piuttosto facile, per far passare tutto, perché in certi affari, come in tutti gli altri del resto, è la vendita ad autenticare ogni valore. Dopo, converrà ai collezionisti o ai musei, soprattutto americani, strapieni di falsi, mantenerne la buona reputazione, come il Fondo monetario internazionale mantiene la finzione del valore positivo degli enormi debiti di cento nazioni. Il falso forma il gusto e sostiene il falso, facendo sparire volontariamente la possibilità di riferimento all’autentico. Si rifà addirittura il vero, appena possibile, per farlo assomigliare al falso. Gli americani, essendo i più ricchi e i più moderni, sono stati le vittime principali di questo commercio del falso in arte. E sono proprio gli stessi a finanziare i lavori di restauro di Versailles o della Cappella Sistina. Per questo gli affreschi di Michelangelo dovranno acquistare colori ravvivati da fumetto, e i mobili autentici di Versailles assumere il vivido splendore della doratura che li farà assomigliare al falso mobilio d’epoca Luigi XIV importato dispendiosamente nel Texas. Il giudizio di Feuerbach sul fatto che il suo tempo preferiva «l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà» è stato pienamente confermato dal secolo dello spettacolo, e questo in numerosi campi in cui l’Ottocento era voluto restare lontano da quella che era già la sua natura profonda: la produzione industriale capitalista. In tal modo la borghesia aveva ampiamente diffuso lo spirito rigoroso del museo, dell’oggetto originale, della critica storica esatta, del documento autentico. Ma oggi l’artificiale tende a sostituire il vero dovunque. A questo punto è provvidenziale che l’inquinamento dovuto al traffico costringa a sostituire con copie di plastica i cavalli di Marly o le statue romaniche del portale di Saint-Trophime. Insomma, tutto sarà più bello di prima, per essere fotografato dai turisti. Probabilmente il colmo è stato raggiunto con il ridicolo falso burocratico cinese delle grandi statue della vasta armata industriale del Primo Imperatore, che tanti statisti in viaggio sono stati invitati ad ammirare in situ. Ciò dimostra quindi, dato che si è potuto prenderli in giro con tanta crudeltà, che nessuno disponeva, nella massa dei consiglieri, di un solo individuo che conoscesse la storia dell’arte, in Cina o fuori della Cina. È noto che hanno avuto un’istruzione particolare: «II computer di Sua Eccellenza non ne è stato informato». La constatazione che, per la prima volta, si può governare senza avere alcuna conoscenza dell’arte né alcun senso dell’autentico o dell’impossibile potrebbe bastare da sola a far supporre che tutti gli ingenui creduloni dell’economia e dell’amministrazione porteranno probabilmente il mondo a una grande catastrofe; se la loro pratica effettiva non l’avesse già dimostrato. XXIX - Una legge generale del funzionamento dello spettacolo integrato, almeno per coloro che ne gestiscono la direzione, è che, in questo ambito, tutto ciò che si può fare dev’essere fatto. In altre parole ogni nuovo strumento dev’essere utilizzato, a qualsiasi costo. L’attrezzatura nuova diventa ovunque il fine e il motore del sistema; e sarà l’unica a poter modificare in modo considerevole il suo andamento, ogni volta che il suo uso si sarà imposto senza altre riflessioni. I proprietari della società vogliono infatti mantenere, innanzitutto, un certo «rapporto sociale tra le persone», ma devono anche perseguire il rinnovamento tecnologico continuo; per ché questo è stato uno degli obblighi che hanno accettato insieme all’eredità. Perciò questa legge si applica anche ai servizi che proteggono il dominio. Lo strumento messo a punto dev’essere usato, e il suo uso rafforzerà le condizioni stesse che favorivano tale uso. I procedi menti d’emergenza diventano così procedure di sempre. La coerenza della società dello spettacolo ha dato ragione in un certo modo ai rivoluzionari, perché è ormai chiaro che non si può riformare il suo dettaglio più insignificante senza disfare l’insieme. Allo stesso tempo però questa coerenza ha soppresso ogni tendenza rivoluziona ria organizzata, sopprimendo i terreni sociali in cui essa aveva potuto esprimersi più o meno bene: dal sindacalismo ai giornali, dalla città ai libri. In una sola volta si è potuto mettere in luce l’incompetenza e l’irriflessione che tale tendenza portava in sé del tutto naturalmente. E sul piano individuale, la coerenza dominante è capacissima di eliminare o di comprare certe eventuali eccezioni. XXXIII - Lo stesso Sardou dice anche: « Vanamente è relativo al soggetto; invano è relativo all’oggetto; inutilmente è senza utilità per tutti. Si è lavorato vanamente quando lo si è fatto senza successo, in modo da perdere tempo e fatica: si è lavorato invano quando lo si è fatto senza raggiungere lo scopo che ci si prefiggeva, a causa del difetto dell’opera. Se non riesco a svolgere il mio compito, lavoro vanamente; perdo inutilmente tempo e fatica. Se il mio compito svolto non ha l’effetto che mi aspettavo, se non ho raggiunto il mio scopo, ho lavorato invano; ossia ho fatto una cosa inutile… « Si dice anche che uno ha lavorato vanamente quando non è ricompensato per il suo lavoro, o quando tale lavoro non è apprezzato; perché in tal caso il lavoratore ha perso tempo e fatica, senza pregiudicare in nessun modo il valore del suo lavoro, che peraltro può essere eccellente ». (Parigi, febbraio-aprile 1988) |
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